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Palestina Papers

Il Sionismo

Derivato da Sion, il nome biblico della collina su cui sorgeva il tempio di Gerusalemme, il Sionismo è un movimento politico e culturale ebraico nato alla fine del XIX secolo e giunto all’apice sotto la guida dello scrittore Theodor Herzl. Se in principio si propone il ritorno degli ebrei in Palestina e la proclamazione di uno Stato autonomo, dopo la nascita di Israele nel 1948 il termine viene usato per indicare il nazionalismo ebraico più ‘duro’ e chiuso nei confronti dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Sionismo ed ebraismo non sono però la stessa cosa: non tutti gli ebrei sostengono il movimento e non tutti quelli che lo appoggiano credono sia necessario occupare i territori palestinesi.

La nascita dello Stato di Israele 

Dopo la fine della Prima guerra mondiale (1914-1918) la Società delle Nazioni (il predecessore dell’ONU) affida il territorio palestinese al Governo britannico. Quest’ultimo appoggia l’idea di creare una “patria nazionale per il popolo ebraico” su parte dell’area abitata dagli arabi (dichiarazione di Balfour, 1917), scatenando l’ira delle comunità residenti. La tensione esplode il 29 novembre del 1947, quando le Nazioni Unite votano la spartizione della Palestina in due Stati: uno ebraico (Israele) e uno arabo (che non si crea). Il primo dichiara la propria indipendenza nel 1948, il secondo ancora non l’ha raggiunta.

Perché non esiste uno Stato di Palestin

La risoluzione 181 delle Nazioni Unite, con cui si decide la creazione di due Stati, prevede che a quello ebraico spetti il 56% del territorio a disposizione (anche se all’epoca gli ebrei rappresentavano circa il 33% della popolazione residente) e a quello arabo la restante parte – con la città di Gerusalemme come entità neutrale governata dall’ONU. Nello specifico al primo si sceglie di assegnare le zone economicamente più sviluppate e fruttuose, al secondo quelle prettamente desertiche, aride e rocciose. Alla fine solo gli ebrei accettano la suddivisione e il 14 maggio 1948 proclamano la nascita del proprio Stato. Gli arabi invece rifiutano l’accordo e la Palestina non nasce.

La guerra del 1948

Dopo la ‘partenza’ degli inglesi e la nascita del nuovo Stato, scoppia la prima di una serie di guerre fra Israele e i Paesi arabi circostanti. I giorni seguenti alla dichiarazione di indipendenza, Egitto, Iraq, Giordania e Siria, coalizzati con la Palestina, colpiscono Israele. Quest’ultimo però, resiste – soprattutto grazie al sostegno dell’URSS e degli Stati Uniti – e anzi sferra a sua volta un attacco, decisivo, con cui occupa parti di territorio assegnati dall’ONU alla Palestina (arrivando nel 1949 a controllare il 78% dell’area totale).

La Nakba

Considerato dai palestinesi uno degli eventi più traumatici della propria storia e ricordato il 15 maggio di ogni anno – un giorno dopo la fondazione di Israele -, la ‘catastrofe’(traduzione dall’arabo) è l’esodo che ha visto 750mila palestinesi (stima ONU) costretti a lasciare le proprie case dopo la sconfitta araba del 1949. Il timore è che il recente ordine di evacuazione dato da Israele alla popolazione del nord della Striscia di Gaza possa trasformarsi in un’altra Nakba.

La guerra dei sei giorni e i confini del 1967

La sconfitta del 1949 non spegne le tensioni tra Israele e i Paesi arabi: i due schieramenti tornano a fronteggiarsi fra il 5 e il 10 giugno 1967, in quella che viene chiamata la Guerra dei sei giorni. Gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania vengono sorpresi da un assalto devastante e Israele occupa definitivamente i territori palestinesi di Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza, parte del Sinai, e le alture del Golan, tracciando così un confine meglio conosciuto come ‘territori del 67’. Gli stessi che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ordina a Israele di restituire.

Come sono stati occupati i territori palestinese

Sulle terre palestinesi occupate, Israele comincia a costruire delle colonie. Nonostante la Quarta Convenzione di Ginevra le consideri una violazione del diritto internazionale – le forze occupanti non possono spostare i propri cittadini nei territori occupati – e la risoluzione 446 del Consiglio di sicurezza ONU del 1979 ne abbia riconosciuto l’illegalità, negli anni i Governi di destra che si sono succeduti hanno proceduto in maniera piuttosto disinvolta alla loro costruzione. Così le colonie israeliane, vere e proprie città in miniatura costituite da ebrei che godono di diritti che i palestinesi non hanno, sono cresciute a dismisura. Dal 2012 al 2022, nella Cisgiordania occupata la popolazione di coloni è passata da 520.000 a più di 700.000 individui, che vivono illegalmente in 279 insediamenti – e fino al 2005 erano più di 9.000 i coloni israeliani residenti illegalmente a Gaza.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina

La ‘Guerra dei Sei giorni’ segna una rottura definitiva tra Palestina e Stati arabi. Durante il vertice della Lega Araba del 1964, i militanti palestinesi esprimono la volontà di creare un’organizzazione propria, unica, in grado di riunire tutti i movimenti di resistenza: nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidata dal politico palestinese Ahmad Shuqayrī. Nell’ottobre 1974 l’ONU – dopo il coinvolgimento dell’OLP in atti di terrorismo e la successiva rinuncia alla maggior parte degli obiettivi prefissatisi nella carta costitutiva – riconosce il gruppo come rappresentante ufficiale del popolo palestinese, che ottiene così lo status di osservatore in numerosi organi delle Nazioni Unite. Nel 1975 anche il Consiglio di sicurezza riconosce l’OLP.

 

La prima Intifada

L’occupazione delle terre da parte di Israele, l’illecita costruzione di insediamenti e l’aumento della repressione spingono la popolazione palestinese a insorgere. La prima grande ‘rivolta’ (traduzione dall’arabo) comincia l’8 dicembre del 1987, quando 4 palestinesi del campo profughi di Jabalya muoiono in un incidente stradale con un veicolo israeliano. La protesta esplode in scioperi, boicottaggi e azioni violente, duramente represse dall’esercito israeliano. L’insurrezione termina il 13 settembre del 1993, con l’uccisione di più di 2mila palestinesi.

Hamas

Durante il primo anno di Intifada fa la sua comparsa Hamas, acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiya (Movimento di resistenza islamica), un movimento militante islamico con una forte impronta religiosa fondato a Gaza dallo sceicco palestinese Ahmed Yassin nel 1987. Con la vittoria alle ultime elezioni legislative del 25 gennaio del 2006, il gruppo diventa anche uno dei due principali partiti politici della Palestina, prendendosi con la forza il controllo sulla Striscia di Gaza (mentre l’avversario Fatah governa sui territori della Cisgiordania). L’obiettivo di Hamas è la creazione di uno stato palestinese indipendente, e la distruzione di Israele. Alcuni Paesi (come USA e Unione Europea) la considerano un’organizzazione terroristica.

 

Gli accordi di Oslo: a un passo dalla pace

La prima Intifada termina con gli accordi di Oslo, siglati a Washington il 13 settembre del 1993 e stipulati segretamente a Oslo, in Norvegia, il 20 agosto, tra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, a capo dell’OLP – con la mediazione degli Stati Uniti. Un patto con cui per la prima volta Israele e Palestina riconoscono reciprocamente il diritto a esistere, ma che in realtà non avvia mai quel processo di pace sperato perché privo di risposte concrete sulle questioni più spinose – come il controllo di Gerusalemme.

 

Quando si è riacceso il conflitto

Il fallimento degli accordi di Oslo porta negli anni successivi a nuovi scontri tra Israele e Hamas (con una seconda Intifada nel 2000), caratterizzati da lanci di missili e bombardamenti (come quelli caduti tra il 2007 e il 2008, quelli del 2012, del 2014 e del 2021). Il 7 ottobre del 2023 Hamas ha però avviato un attacco senza precedenti nel sud di Israele: circa cinquemila razzi lanciati in poche ore all’interno del territorio israeliano e la contemporanea incursione via terra di un numero imprecisato di miliziani armati che hanno sfondato i confini e fatto irruzione negli insediamenti. Per via della sua estensione e violenza, l’assalto è considerato il più grave subito da Israele – che ha avviato a sua volta un’offensiva militare – da decenni.

 

Chi riconosce lo Stato di Palestina

Se da una parte quello di Israele è considerato uno Stato a tutti gli effetti, per la Palestina il giudizio è meno unanime. A reputarla uno Stato indipendente – e non un insieme di due territori separati sotto autorità altrui – sono 139 Stati (dati aprile 2022), ma tra questi non c’è l’Italia. Tuttavia la Palestina è stata comunque riconosciuta essere uno Stato ai fini dell’esercizio della giurisdizione della Corte penale internazionale in merito ai presunti crimini di guerra e contro l’umanità commessi sul suo territorio.

La lotta armata palestinese è legale?

Nella risoluzione 37/43 del 1982 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite afferma “la legittimità della lotta dei popoli per la loro indipendenza, integrità territoriale, unità nazionale e liberazione dalla dominazione coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”, sottolineando “il diritto inalienabile del popolo namibiano, del popolo palestinese e di tutti i popoli sotto la dominazione straniera e coloniale all’autodeterminazione, all’unità nazionale e alla sovranità senza interferenze straniere”. A patto che le parti coinvolte rispettino il diritto internazionale umanitario, che impone l’obbligo di adottare tutte le misure possibili per evitare o ridurre al minimo la perdita accidentale di vite e danni ai beni.

Gaza è una ‘prigione a cielo aperto’

Human rights watch ha definito Gaza – un territorio abitato da 2.2 milioni di palestinesi, distribuiti su un territorio lungo 41 chilometri e largo tra i 6 e i 12 – “una prigione a cielo aperto” per due motivi. Primo: le restrizioni che Israele ha imposto a partire dal 2007 a chiunque voglia uscire da Gaza. Una politica di chiusura che impedisce alla maggior parte dei residenti di spostarsi altrove, privandoli di fatto della possibilità di cambiare vita. Artisti, sportivi, studenti e simili non possono infatti viaggiare all’estero, e anche le merci in entrata e in uscita subiscono il controllo delle autorità israeliane. Secondo: le incarcerazioni arbitrarie. Al primo settembre 2023 erano 1264 i palestinesi detenuti da Israele senza processo o accuse, e in generale dal 1967 ad oggi almeno un milione di palestinesi sono passati dalle galere israeliane.

Parlare di “apartheid” sui palestinesi è corretto

Nel 1973 l’ONU adotta un trattato specifico che definisce l’apartheid come “crimine contro l’umanità, consistente in atti disumani volti allo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su qualsiasi altro gruppo razziale di persone e di opprimerlo sistematicamente”. Quello che Human Rights Watch sostiene stia facendo Israele, che nella maggior parte degli aspetti della vita “privilegia i propri cittadini e discrimina i palestinesi espropriandoli, confinandoli, separandoli con la forza e sottomettendoli in virtù della loro identità”, con l’obiettivo (dichiarato) di mantenere il totale controllo. «L’occupazione si è trasformata in apartheid», ha confermato Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi.

 

Chi critica le politiche israeliane è antisemita?

Ci sono tre grandi macrocategorie di persone che si oppongono al sionismo: quella dei palestinesi (per ovvie ragioni), quella di chi non è d’accordo sulla nascita e le modalità di controllo di Israele, e quella degli antisemiti, di coloro cioè che nutrono odio contro gli ebrei in quanto ebrei. È quest’ultima sezione che, come ogni forma di razzismo, va condannata e contrastata e non ha ragione di esistere.

Le responsabilità dell’Occidente

La prima e più evidente è quella di aver deciso a tavolino le sorti di due popoli. Emanata nel 1917, la Dichiarazione Balfour provoca infatti un significativo sconvolgimento nella vita dei palestinesi: il Governo britannico dà il suo benestare alla creazione di una ‘patria ebraica’, senza tenere conto dei sogni, delle esigenze e della vita di chi quella ‘patria’ la abitava già (per la quasi totalità). Quello di Balfour è infatti uno dei documenti più messi in discussione della storia moderna, soprattutto perché scritto dall’Occidente per un territorio non occidentale. La seconda, non per importanza, è il piano di spartizione ideato dall’ONU, che ha concretamente favorito il progetto sionista.

Quali sono le tutele legali per ospedali e personale medico?

L’articolo 18 della Prima Convenzione di Ginevra, ratificata dagli Stati membri delle Nazioni Unite dopo la Seconda Guerra Mondiale, afferma che personale sanitario e ospedali “non possono in nessun caso essere oggetto di attacco o interferenze (come la privazione di elettricità)” ma devono essere in ogni momento rispettati e protetti dalle parti in conflitto. Tuttavia negli ultimi anni le violenze rivolte a strutture mediche sono sempre più frequenti – è successo anche in Sudan e in Ucraina di recente – con conseguenze dirette e indirette sulla popolazione civile.

I presunti crimini gravi possono essere perseguiti presso la Corte penale internazionale?

Potrebbero, indipendentemente dalla nazionalità dei presunti autori. Nel 2021 la Corte penale internazionale – che ha giurisdizione sui crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e genocidio commessi nei suoi 123 stati membri o commessi dai suoi cittadini – ha già aperto un’indagine su presunti crimini gravi commessi in Palestina dal giugno 2014.

 

È vero che Israele è “l’unica democrazia del Medioriente”?

Per essere definito ‘democratico’, uno Stato non necessita solo di un Parlamento e di libere elezioni. Ad oggi è piuttosto difficile pensare di associare ‘democrazia’ e Israele, un Paese occupante e irrispettoso dei diritti di un altro popolo. Un atteggiamento dispotico che non danneggia solo i palestinesi, ma diventa un pericolo per la stessa Israele. Infatti il Governo israeliano manifesta la sua poca democraticità anche fra le mura di ‘casa’ propria: ne è una prova la recente nascita della “Guardia nazionale per Israele”, un organo di polizia addestrato per soffocare oppositori e dissenso, e la riforma della Giustizia in discussione (e già in parte approvata), che ha come obiettivo quello accentrare tutti i poteri in mano all’esecutivo.

Qual è la posizione dell’Italia e degli Stati internazionali nel conflitto

L’UE è divisa (così come il resto del mondo, condizionato dagli interessi economici), ma oggi la tendenza generale è quella di condannare in maniera decisa l’attacco di Hamas e in maniera più indulgente quello di Israele su Gaza. La posizione dell’Italia è cambiata nel tempo: se ad oggi il Governo sostiene il diritto di difesa di Israele, negli anni ‘70 il Primo Ministro Aldo Moro promuove varie iniziative a favore della causa palestinese e lo stesso fa nel 1985 il Presidente del Consiglio Bettino Craxi, che in un discorso alla Camera definisce “legittima” la lotta armata palestinese. Ma a partire dagli anni ’90, con l’ascesa del neoliberismo globale e dopo gli attentati dell’11 settembre, l’Italia diventa uno dei maggiori alleati europei di Israele. 

 

Come potrebbe finire il conflitto

In tre modi. Primo, soluzione a uno Stato, che prevede la riunione di israeliani e palestinesi in un unico Stato pluralistico. Secondo, distruzione di una parte, nel caso in cui una delle due fazioni sia definitivamente sconfitta (opzione preferita dagli estremisti di entrambe le fazioni): Terzo, soluzione a due Stati, per cui sia gli israeliani che i palestinesi hanno i propri territori indipendenti. È l’ipotesi più plausibile ma rimane comunque complicata, perché prevedrebbe prima lo scioglimento di alcuni nodi: entrambe le parti rivendicano Gerusalemme come loro capitale; non esiste un accordo chiaro su dove tracciare esattamente i confini; i palestinesi rivendicano il “diritto al ritorno” nella loro terra; Israele teme che con l’indipendenza la Palestina (e Hamas) possa allearsi con altri stati del Medio Oriente.

 

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