Oltre 1.000 chilometri quadrati di terreni agricoli sparsi in poco meno di 20 Stati Federati: è a quanto ammontano i possedimenti terrieri di Bill Gates. Cifre impressionanti che, di fatto, fanno del co-fondatore di Microsoft il più grande proprietario di terreni agricoli coltivabili negli Stati Uniti. I suoi possedimenti più estesi sono in Louisiana, Arkansas e Nebraska. A rivelarlo, una recente classifica redatta da Land report. I terreni sono direttamente detenuti da Gates, oppure, acquisiti tramite la controllata Cascade Investments. Bill Gates non è l’unico multimiliardario ad aver puntato il mirino sull’agricoltura. Nella stessa classifica, ad esempio, figurano al terzo posto Stewart e Lynda Resnick, fondatori della The Wonderful company. Ed anche Jeff Bezos sembra interessato al settore. Se parliamo di terreni in generale, e non solo di quelli agricoli, l’amministratore delegato di Amazon si posiziona, infatti, ben 24 posizioni avanti a Gates.
Come spiegare questo “ritorno all’agricoltura” da parte dei principi dell’economia immateriale? Per una prima possibile indicazione è necessario tornare indietro di qualche anno, esattamente al 2008, anno in cui la fondazione umanitaria Bill and Melinda Gates stanziò 306 milioni di dollari per promuovere l’agricoltura “sostenibile ad alto rendimento” nell’Africa subsahariana e in Asia meridionale. Negli anni successivi, si sono poi susseguiti ulteriori investimenti, specie sul fronte della resistenza ai cambiamenti climatici. Fino ad arrivare alla recente fondazione della Gates Ag One, una no-profit destinata a progredire nel settore, ovvero, incentivare uno sviluppo agricolo sostenibile e produttivo nei paesi del terzo mondo. C’è però chi, come la Ong britannica Global Justice Now, accusa la fondazione di Gates di fare investimenti non a scopi caritatevoli, ma per favorire «politiche economiche neoliberiste e la globalizzazione aziendale».
Tornando a noi, è lecito supporre che – oltre alle reali o presunte intenzioni caritatevoli – il visionario Gates abbia compreso l’evoluzione del mercato e stia adeguando ad esso i suoi investimenti. Come diretta conseguenza delle politiche climatiche, infatti, si sta via via delineando un nuovo mercato. Un terreno fertile – in tutti i sensi – che inizia a far gola agli investitori. In una società fondata sul capitale e la finanza, non dovrebbe sorprendere che l’agricoltura venga a sua volta finanziarizzata. In questo caso, stiamo parlando però di un vero e proprio business emergente: il carbon farming. Le pratiche agricole sostenibili che rimuovono l’anidride carbonica dall’atmosfera, infatti, sono in linea con l’obiettivo della neutralità climatica. Non a caso, una nuova iniziativa dell’Ue nell’ambito del Patto per il clima è nata allo scopo di promuovere questo nuovo modello di business “verde”: offrire agli agricoltori una nuova fonte di reddito ed aiutare altri settori a decarbonizzare la filiera agroalimentare. Questo processo sarà attuabile tramite “certificati di assorbimento”, i quali garantiranno, ad una specifica pratica agronomica o ad una determinata coltura, un certo quantitativo di sequestro in carbonio in termini di tonnellate ad ettaro. «Le potenziali opportunità che si aprono per il settore agricolo e forestale – scriveva già nel 2010 Raul Romano dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria – non sembrano poche. Un imprenditore agricolo o forestale potrebbe ricevere redditi dalla vendita dei crediti di carbonio, ottenibili dalla valorizzazione del suo lavoro e della sua proprietà, con interventi compensativi specifici volti ad aumentare lo stock di carbonio nella biomassa epigea, ipogea, nella lettiera e nel suolo». In parole povere, un imprenditore agricolo potrebbe guadagnare vendendo ad aziende o stati inquinanti le quote di carbonio che la sua attività “assorbi-CO2” ha contribuito ad immagazzinare. Una possibilità che si è via via sempre più concretizzata.
Se il carbon farming aiuterà effettivamente a compensare le emissioni climalteranti lo scopriremo, però, solo tra qualche anno. Per il momento, nonostante sia in costante crescita, il contesto più ampio in cui questo opera non fa ben sperare. Il mercato del carbonio, definito nel 1997 con il Protocollo di Kyoto, ha infatti iniziato a mostrare i suoi limiti. Il concetto è che le imprese inquinanti, anziché modificare le proprie strutture produttive, possano comprare diritti di emissione e crediti di carbonio. In questo modo verrebbero finanziati progetti di riforestazione o investimenti in tecnologie pulite che dovrebbero generare un taglio di gas serra equivalente a quello emesso in eccesso dall’industria. Dieci anni dopo, tuttavia, un’analisi fatta per la Commissione europea ha dimostrato che l’85% dei progetti autorizzati dalle Nazioni Unite sovrastimava la compensazione delle emissioni e che, frequentemente, non è stato originato nessun bilancio positivo a favore della riduzione della CO2. Oggi, una tonnellata di carbonio vale circa 25 euro. Per favorire investimenti realmente sostenibili, secondo le stime della Banca Mondiale, il prezzo dovrebbe oscillare tra i 50 e i 100 dollari a tonnellata. Uno studio, pubblicato su Science nel 2017, ha perfino suggerito di aumentarlo a 400 dollari entro il 2050. Forse, l’unico modo per rendere questo meccanismo realmente efficace sarebbe che il prezzo del carbonio salga a livelli tali che le aziende inquinanti, piuttosto che acquistare crediti di carbonio, trovino più conveniente rinnovare e adeguare i propri impianti.
È altrettanto plausibile, in ultima analisi, che chi ne ha le possibilità economiche cerchi di proteggersi dagli effetti dell’inflazione. Lo spettro della riduzione del potere d’acquisto delle valute sembra infatti che stia tornando ad incombere sulle economie mondiali. La produzione agricola, non a caso, è uno dei pochi settori al riparo da questo fenomeno ed investire nel settore potrebbe rappresentare quindi una facile scappatoia.
[di Simone Valeri]
[playht_player width=”100%” height=”90px” voice=”it-IT-Wavenet-C”]
Test commento
Prova commento
dbhdbchbhcj